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Direzione: Sgombrocittà

Scritto e illustrato da Sara P., 12 anni

Gli scogli di Cozze sono appuntiti come pochi altri. Una scivolata, qua, e ti ritrovi K.O. Per questo mi infilo le infradito e mi avvicino alla linea che divide la terraferma dalla terra-in-movimento. Guardo giù, giù, giù, ancora più giù. Questo è un mare impetuoso. Se c’è tramontana, l’acqua è mossa e scura e le onde ti portano a riva e ti sbattono contro le rocce. Se invece si c’è scirocco, allora… l’acqua diventa calda e calma, ma in compenso i gradi si alzano fino a toccare il cielo del termometro. Il vento trasporta la sabbia del deserto attraverso mari e montagne, portandola a depositarsi sui parabrezza delle auto. E adesso… adesso c’è scirocco. Perciò, l’acqua è trasparente e si vede tutta la vita che c’è là sotto la superficie, dove un nuovo mondo appare diversissimo da come lo vediamo noi fuori. Se non sapessi che, tanto tempo fa, l’acqua ha riempito delle fosse createsi nella crosta terrestre, e poi flora e fauna l’hanno occupata, direi che quello è un altro pianeta, fatto di colori e sale e pesci e tante altre cose belle che non hanno niente a che fare con l’ossigeno. Ma evidentemente mi sono sporta troppo verso la mia adorata terra-in-movimento, perché la mia infradito scivola sulle alghe degli scogli e mi fa precipitare in acqua, con tanto di maglietta e pantaloncini. Sulle prime non assimilo bene l’avvenimento, mi sento solo turbinare acqua e bolle intorno alla testa, come se fossi finita in un acquario. Beh, più o meno… apro gli occhi e vedo un brulicare di vita, colori, pesci, ma tutto fuso in un unico miscuglio. Mi sento bruciare gli occhi. E la gola. All’improvviso sento un bisogno d’aria che mi assale, per poi costringermi a distogliere lo sguardo e a tirare su la faccia per una boccata d’aria gratificante. Ma subito la mia mente ritorna a com’era bella la vita là sotto, e allora l’unica cosa che riesco a chiedere a mia madre che mi guarda esterrefatta, è: «Non è che mi passi gli occhialini?». Lei, cercando di trattenere le risate (anzi, senza cercare proprio di trattenerle), fruga un po’ dentro la borsa e poi me li porge, chiedendomi: «Tutto bene?» «Certo, adesso do un’occhiata sotto e poi torno su». E con queste parole mi tuffo in profondità. Sembra davvero di entrare in un altro mondo, anch’io mi sento cambiata. Vedo un cartello in miniatura, piantato nella roccia. Non so come faccio a capirlo, so solo che c’è scritto: “Sgombrocittà. La città degli sgombri! Attenzione: non sono ammessi pesci maggiori di 15 centimetri!”. Continuo a nuotare, fino ad arrivare ad un grande viale che sembra scavato in mezzo agli scogli. Pesci di tutte le forme e colori fanno la spesa, chiacchierano, mangiano un gelato o fanno nuove amicizie. I negozietti, buchi scavati nella roccia, sono pieni di “gente”. C’è la ferramenta, sulla cui vetrina campeggia la scritta “Chiavi e serrature per tutte le porte! Ogni pesce è ammesso (anche quelli più lunghi di 15 cm)”. Oppure la fruttivendola, con un banchetto in mezzo alla strada, espone le sue alghe più belle, gridando «Alghe fresche! Solo le alghe più fresche! Sia di mare che di fiume! Assaggiate la parte dolce della vita! Vi immaginate dell’acqua senza sale? Assaggiate le nostre alghe di fiume!». Mi intrufolo in quel viale che per i pesci è molto grande, ma che a me graffia la pancia. Poco più in là scorgo un ristorante, dove coppiette romantiche cenano o pranzano o fanno colazione, non lo so. Si chiama “Ristorante e planctoneria, da Pino!” e poi, poco più sotto, intravedo la scritta: “Non sul mare, ma dentro il mare!”. L’umorismo dei pesci è molto… salato. Forse perché stanno in mezzo ad acqua e sale per tutto il tempo?

Vedo un negozietto che sembra chiuso da tempo, con il cartello «Vendesi», malconcio e decadente. Chiedo ad un piccolo pesce di che cosa si tratta. Lui si guarda un po’ intorno e poi, a bassissima voce, mi dice: «Era del pescivendolo. Ma se ne è andato un po’ di tempo fa, per sagge questioni morali o qualcos’altro. Prima la città apparteneva ai polpi, sa? E allora sì che faceva affari, il nostro vecchio Piero (il pescivendolo). Però poi se ne sono andati tutti, i polpi dico, per un’epidemia. E dopo un po’ di tempo la nostra tribù di sgombri ha iniziato ad abitarla, cambiandole anche il nome. Mi capisce? E allora tutti i pesci hanno chiamato il vecchio Piero «cannibale», perché vendeva pesci a pesci, e perciò ha dovuto sfrattare…». Se non avessi davanti un piccolo pesce in lacrime, mi metterei a ridere per tutta questa storia che mi sembra tanto assurda. Non so che dire. Ma il piccolo pesce evidentemente sì... «Era… Mio nonno!», riesce a dirmi tra un singhiozzo e l’altro «E adesso lavora dai… dai… ohhhhh, ohhhhh!!! Dai tonni!!!», sussurra come se fosse la peggiore delle ingiurie, lavorare dai tonni. «Ma non si può parlare di questa storia, in paese, perché tutti ancora lo odiano e disprezzano». Sono mortificata. «Mi dispiace», gli dico, e lo penso davvero. Anche se tutta questa storia mi sembra completamente fuori dagli ideali di un essere umano, ma in fondo… sono nel paese degli sgombri, che a quanto mi risulta non sono esattamente esseri umani. Solo allora mi viene in mente che ho bisogno di ossigeno, perché non sono un pesce, e quindi inizio a nuotare verso la superficie in cerca di aria. Torno su, respiro a pieni polmoni. Appena rimetto la testa sott’acqua e nuoto fino al punto in cui avevo visto Sgombrocittà, però… non c’è più niente. Certo, pesci di sicuro, e tanti. Ma non il cartello. La ferramenta. La scritta “Vendesi”. Niente. Tutto scomparso. Forse frutto della mia immaginazione? Impossibile. Io ci ho parlato con quel piccolo pesce, sì che ci ho parlato. Mi aveva detto di suo nonno Piero. Iniziano a scendermi le lacrime, fitte, neanch’io so bene perché. Quindi ho solo sognato. Ma proprio quando sto per tornare su, scorgo un pezzetto di ferro. Mi fiondo verso di lui alla velocità della luce e… scopro due lettere incise, «Sg». So benissimo che è l’inizio della parola «Sgombrocittà». Quindi forse non ho sognato. Forse è tutto vero!

Torno a respirare a riva, mi tolgo i vestiti fradici e me ne metto di nuovi. «Torniamo a casa, Sara. Qui ti prenderai un raffreddore. Ma come ti è saltato in mente di tuffarti in quell’acqua con tutti i vestiti?», mi chiede mio padre. Mi stringo nelle spalle, con il sorriso sulle labbra e la mente altrove. La mano talmente stretta intorno a un pezzo di ferro arrugginito che vanno creandosi solchi nella mia pelle bagnata. «Ok, andiamo a casa», rispondo.

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