Scritto da Vittoria, 13 anni
Solitudine. Questo è ciò che caratterizza la mia vita da sette anni.
Osservai i muri spogli della camera dell’appartamento che avevo preso in affitto, giallognoli e scrostati. La luce del tramonto, proveniente dalla grande finestra aperta, proiettava delle ombre scure sulle pareti e sul letto, che rendevano la stanza più cupa di quanto non fosse già. Alla mia destra si trovava una porta che conduceva alla piccola cucina. Da lì, attraversando una porta scorrevole, si accedeva al bagno. Con il mio misero stipendio riuscivo a permettermi soltanto quello, ma a me bastava, dato che dovevo fare tutto da sola. Se avessi avuto una casa più grande sarebbe stato difficile gestirla.
Sentivo molto la mancanza di mio marito. La sua morte aveva lasciato un enorme vuoto dentro di me. Quando lui era venuto a mancare, avevo lasciato la nostra abitazione in campagna ed ero andata in città, più vicina al lavoro e ai negozi. La mia vita, così, era cambiata radicalmente. Sembrava che il denaro non fosse mai abbastanza e la solitudine mi pesava molto. Mi convincevo che ci avrei fatto l’abitudine. Ma dentro di me sapevo che non sarebbe mai successo.
Durante i primi mesi vissuti da sola, forse per passare il tempo, forse per cercare di digerire la questione, avevo suddiviso la mia vita in “a.C.” e “d.C.”, dove “C” stava per Coronavirus, o Covid. Avanti Covid e dopo Covid. Da una parte ero sollevata di essere riuscita a dare un nome al mostro che si era portato via mio marito, ma dall’altra ero infastidita, perché in questo modo anche il periodo prima dell’arrivo di questo virus, la parte felice della mia vita, portava il suo nome.
Era iniziato tutto ad aprile 2020. Mio marito aveva preso un raffreddore, inizialmente non ce ne preoccupammo molto, eravamo convinti che la causa fosse l’aver preso freddo in giardino due giorni prima. Quando, però, al raffreddore si aggiunsero anche febbre e mal di gola, iniziammo ad allarmarci. Era ormai risaputo che il Covid-19 aveva come principali sintomi proprio i tre che mio marito aveva contratto in quel periodo. Come da indicazioni, rimanemmo in casa.
Una settimana dopo, però, la situazione precipitò: mio marito stette molto male e vennero degli uomini con delle ingombranti tute bianche a prenderlo, per portarlo in ospedale. In terapia intensiva. Dove morì, senza un saluto, senza un funerale. Non era che una delle tante vittime che quel maledetto virus mieteva, senza pietà.
Io non stetti mai male fisicamente. Ancora oggi non riesco a capire il perché, non riesco a capacitarmene. Provavo però un dolore emotivo immenso, che mi lacerava dentro.
Era il destino, il fato, che mi prendeva in giro, si divertiva a farmi soffrire. Perché, alla fine, facendo morire mio marito, mi aveva doppiamente uccisa. Oltre a lui, ero morta anche io, ma restando in vita, come un fantasma, a trascinare il peso del dolore e della solitudine.
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